La responsabilità estetica dell’architetto: il dominio del brutto (2007)

«Se si insegnasse la bellezza alla gente, la si fornirebbe di un’arma contro la rassegnazione, la paura e l’omertà. All’esistenza di orrendi palazzi sorti all’improvviso, con tutto il loro squallore, da operazioni speculative, ci si abitua con pronta facilità, si mettono le tendine alle finestre, le piante sul davanzale, e presto ci si dimentica di come erano quei luoghi prima, ed ogni cosa, per il solo fatto che è così, pare dover essere così da sempre e per sempre. È per questo che bisognerebbe educare la gente alla bellezza: perché in uomini e donne non si insinui più l’abitudine e la rassegnazione ma rimangano sempre vivi la curiosità e lo stupore». (Peppino Impastato)

A un certo punto, l’amico sellaio tirò fuori dal retrobottega una sella bizzarra e mi disse, ridacchiando sotto i baffi, che l’aveva progettata e fatta fare su misura un mio collega architetto. Mentre la osservavo incuriosito mi chiese: “bella vero, la vuoi?” Gli risposi che non sapevo cosa farmene e lui, ridendo: ”nemmeno io! perché questa non è una sella!”. Così mi venne in mente il seguente racconto di Adolf Loos pubblicato in Das Andere n°2 del 1903:

«C’era una volta un mastro sellaio. Era un buon artigiano, molto abile. Fabbricava selle che per la loro forma non avevano nulla in comune con le selle dei secoli precedenti. Neppure con le selle turche o giapponesi. Erano cioè selle moderne. Lui però non lo sapeva. Sapeva soltanto che faceva selle. Meglio che poteva.
Un bel giorno si propagò in città un movimento singolare. Fu chiamato Secession. Esso prescriveva che si producessero soltanto oggetti d’uso moderni.
Quando il mastro sellaio ne venne a conoscenza, prese con sé la sua sella migliore e si recò dal capo della Secession.
E gli disse : «Signor professore,» – poiché tale era costui, in quanto i capi di questo movimento venivano automaticamente promossi professori – «signor professore! Ho saputo delle regole che avete stabilito. Sono anch’io un uomo moderno. Anch’io vorrei lavorare in modo moderno. Mi dica: questa sella è moderna?».
Il professore esaminò la sella e tenne all’artigiano un lungo discorso nel quale ricorrevano di continuo solo le parole “arte nell’artigianato”, “individualità”, “moderno”, “Hermann Bahr”, “Ruskin”, “arte applicata”, ecc. ecc. Il risultato però era: no, questa non è una sella moderna.
L’artigiano se ne andò tutto mortificato. E ci pensò su; si metteva al lavoro e poi ricominciava a pensare. Ma per quanto si sforzasse di attenersi alle nobili regole del professore, il risultato era sempre la sua vecchia sella.
Rattristato tornò dal professore. Gli confidò la sua pena. Il professore esaminò i tentativi dell’artigiano e disse: «Caro artigiano, lei non ha fantasia».
Sì, questo era il punto. Evidentemente non ne aveva. Fantasia! Ma egli non aveva mai pensato che occorresse aver fantasia per produrre delle selle. Se ne avesse avuta, sarebbe certamente diventato pittore o scultore. O poeta o compositore. Ma il professore disse: «Torni domani. Siamo qui apposta per incoraggiare l’artigianato e fecondarlo con idee nuove. Voglio vedere che cosa si può fare per lei».
E durante la sua lezione disse ai suoi allievi di svolgere il tema seguente: progetto di una sella.
Il giorno successivo il mastro sellaio ritornò. Il professore poté presentargli quarantanove progetti di selle. I suoi allievi, per la verità, erano soltanto quarantaquattro, ma cinque progetti li aveva fatti lui stesso. Quelli dovevano essere pubblicati su «Studio», perché avevano una certa atmosfera.
Il mastro sellaio osservò a lungo i disegni e ai suoi occhi tutto divenne sempre più chiaro.
Infine esclamò: «Signor professore! Se io m’intendessi così poco di equitazione, di cavalli, di cuoio e di lavorazione, avrei anch’io la sua fantasia».
E vive da allora felice e contento.
E fa selle. Moderne? Non lo sa. Selle.»
(trad. it Il mastro sellaio, in Parole nel vuoto, Adelphi, Milano, 1972)

Oggi, la creazione artistica moderna si è fatta completamente autoreferenziale: per capire l’arte diventa indispensabile la cultura dell’arte, l’insegnante d’arte, il critico d’arte, l’autore che ti spiega, lo spartito … maledetti architetti!1. Del resto anche Ortega y Gasset diceva: «L’arte moderna non è più popolare.»2.

Abbondanza energetica, nuove tecnologie e separazione dell’estetica dall’etica

La crisi energetica (carenza di legna da ardere e da costruzione), che stimolò Henry Plattnel nel 1603 a mettere a punto un metodo per la trasformazione del carbone in coke, aprì la strada allo sfruttamento crescente delle energie concentrate che portarono alla rivoluzione industriale e a tutto quello che ne seguì.
L’eccezionale potere energetico, i cui limiti non sono mai stati considerati (sic) almeno fino a pochi anni fa, derivato dal crescente sfruttamento dell’abbondante carbone prima e del petrolio poi, ci ha letteralmente ubriacati, sconquassando l’equilibrio tra uomo e natura, tra uomo e uomo e tra l’uomo e se stesso.
Con l’abbondanza energetica processi come il distruggere e il costruire, che hanno sempre richiesto all’uomo fatica e quindi saggia ottimizzazione delle risorse e dei gesti, sono stati facilitati, o meglio resi banali e riproducibili innumerevoli volte, come ben espresso dall’arte di Andy Wahrol.
A partire dal ‘700 nuove tecnologie modificheranno per sempre il nostro mondo, il nostro rapporto con la forza lavoro, con lo spirito, le scienze e le tecniche fino alla separazione tra arte e lavoro artigianale, tra bello e utile, tra Stato e Chiesa, quest’ultima introdotta come principio non reversibile dalle Rivoluzioni americana e francese.
Non è quindi un caso che il termine estetica, che proprio in quel periodo si separò dall’etica, venga introdotto per la prima volta nel 17503 (Baumgarten, Aesthetica), in concomitanza con la rivoluzione industriale (1760-1830).

«Il funzionalismo astratto che governa l’Occidente ha gradualmente separato etica ed estetica a danno di quest’ultima. La complessità della nostra società richiede ruoli sempre più specifici, con funzioni definite sempre più esattamente.» (L. Zoja4.)

Il problema diventa la comprensione di quel quid, frutto della facile e nuova esuberanza espressiva che andava liberandosi dai vincoli e dai canoni antichi.
I nuovi materiali e le nuove tecnologie ingegneresche affrancano dunque definitivamente la forma architettonica (e non solo) dai vincoli statici e costruttivi tradizionali, gli edifici (e non solo) si “appesantiscono” con nuovi simboli. Non basta il desolante annuncio di Nietzsche5. – la morte di Dio – e la conseguente solitudine dell’uomo europeo ma si aggiunge l’incapacità dell’Etica a comprendere.

«L’uomo, cui viene a mancare il calore del mito e l’affetto divino, d’ora in avanti dovrà prendere da solo la più grave delle decisioni: distinguere il giusto dall’ingiusto. Il compito etico diventa sempre più importante proprio perché l’uomo è solo nell’assolverlo.» (L. Zoja6.)

Nel 1775-79 venne progettato e costruito il primo ponte in ferro sul Severn7., lungo cento piedi e alto quaranta, uno dei più audaci tentativi nell’impiego del materiale da poco tempo disponibile. L’arte si “eleva”, diventa immateriale e simbolica, come i 304 metri della Tour Eiffel, inaugurata il 31 marzo del 1889, eretta come entrata alla Esposizione Universale: 18.038 pezzi di ferro forgiato, 10 mila tonnellate di componenti collegati da mezzo milione di chiodi. L’imponente torre non aveva uno scopo funzionale ma voleva essere un simbolo delle capacità umane, un’altra sfida vinta nei confronti delle leggi della natura. La tecnica così palesemente disgiunta dalla funzione materiale sollevò tali polemiche sulla propria estetica, che la torre avrebbe dovuto essere demolita alla conclusione della fiera.
Del resto un tempo simboli erano riservati a pochi potenti e al divino.
Dall’epoca di Palladio la creazione di case che riflettessero gli ideali dei signorotti divenne un’importante ambizione degli architetti in tutto l’Occidente. Oggi, nella nuova economia del consumo, il simbolo è diventato più importante del prodotto e, quel che è peggio, espressione dello status di una borghesia massificata.
Adolf Loos a proposito degli architetti che – nel costruire i palazzi viennesi di allora – dovevano accontentare i padroni di casa e gli inquilini utilizzando il finto stile rinascimento italiano, scriveva nel 1893:

«Si dice che i colpevoli sono gli architetti, che gli architetti non avrebbero dovuto costruire così. E allora dovrò difendere gli architetti. Perché ogni città ha gli architetti che si merita. La domanda e l’offerta determinano le forme edilizie. Chi risponde meglio alle aspirazioni della gente avrà la possibilità di costruire di più. Mentre il migliore dovrà forse lasciare questo mondo senza aver ricevuto una sola commissione. Gli altri invece fanno scuola. Si costruisce in un certo modo perché questo è l’uso. E in quel modo bisogna costruire. Lo speculatore preferirebbe che le facciate delle case fossero lisce da cima a fondo. Costa molto meno. E così facendo egli agirebbe anche nel modo più autentico, più giusto, più artistico. Ma la gente non vorrebbe abitarci. E per aumentare le probabilità di affittarle il proprietario è costretto ad attaccare su questa facciata, sì, proprio su questa, dei nuovi elementi per ricoprirla.» (A. Loos8.)

E conclude affermando che: “Non tutti possono essere venuti al mondo in un castello feudale. Ma cercare di far credere al prossimo di possederne uno è ridicolo e immorale.” Ecco che l’estetica si sostituisce all’etica.
Insomma, la committenza si massifica, grazie al nascente capitalismo, diventando sempre più grassa, ignorante e egoista. Per meglio servirla l’Architettura si dota di nuovi specialisti e tutti insieme affinano, con disinvoltura, le nuove armi di annientamento della natura: nascono urbanisti (gli sventramenti di Parigi di Georges Eugène Haussmann tra il 1852 e il 1870), impegnati a regolare la sovracrescita delle città moderne9, ingegneri calcolatori (Gustave Eiffel) che hanno reso possibile strutture impensabili con i materiali usati nei secoli precedenti, disegnatori informatici che hanno reso possibile strutture deformi come il Gugghenheim di Bilbao10, paesaggisti che interpretano e arredano la natura, arredatori e designers che si occupano dell’arredamento delle case borghesi, geometri che hanno ricostruito l’Italia (supplendo alla carenza di tecnici nel dopoguerra) e che continuano la loro opera devastatrice, impiantisti che hanno reso possibile “non luoghi” e “Junkspace” sempre più obesi ed energivori (definiti “Bigness” da Rem Koolhaas11) ed infine tuttologi che si arrogano il potere di decidere in ogni campo, in ragione della divulgazione-spettacolo di ogni scienza (amici, muratori, imprenditori, imbianchini, idraulici etc..).
Secondo Massimo Gallione12 in media solo il 4% delle concessioni edilizie in Italia è firmata da iscritti all’Ordine degli Architetti, il peso degli architetti sull’estetica dell’antropizzazione del nostro territorio e sullo sviluppo ed il rinnovamento delle nostre città appare veramente insignificante. Certamente da un numero non si può inferire nulla circa la qualità, ma è un numero così piccolo! Eppure Sirica, presidente del Consiglio Nazionale degli Architetti, afferma che gli architetti in Italia (60.000) sono troppi13.
Del resto, l’incapacità propositiva degli architetti emerge chiaramente anche nei confronti dei grandi maestri dell’architettura moderna. Nel 1932 The New York Times Magazine pubblicava un articolo di Le Corbusier in cui si proponeva una visione futura della città ideale: grattacieli piantati come alberi sullo sfondo verde di un parco. Sciocchezze! sbuffò Frank Lloyd Wright in una replica pubblicata qualche mese più tardi. Wright rispose che il futuro urbano, per lo meno quello americano, sarebbe stato con tutta probabilità a crescita orizzontale e non verticale, come affermava Le Corbusier, conformato attorno a quelli che individuava come gli evidenti moderni fattori del decentramento di quasi tutto: trasporti, comunicazioni e tecnologia. Chiamò la sua visione “ Broadacre City”, più tardi sviluppata in un trattato da titolo “The Disappearing City”. Scriveva di “strade gigantesche” a separare e unire le “unità” di fabbrica e fattoria, con gli “ambiti residenziali” formati da lotti di 1 acro e aree coltivate, e la “città” senza margini che proseguiva all’infinito. Che si consideri questa visione attraente o repellente, va comunque riconosciuta la lungimiranza di Wright. Aveva visto dove ci stava portando l’automobile e sapeva che l’ideale domestico americano non era un “soggiorno acusticamente isolato” sospeso nel cielo, impilato sopra quello del vicino, così come descritto dal molto europeo Le Corbusier, ma sarebbe stata una casa – un castello! – per ciascuno, sul proprio pezzo di terreno, con ampio spazio per l’amata automobile.
Quello che Wright non aveva comunque visto, come indica Witold Rybczynski14 “era che la Broadacre City del futuro non sarebbe stata definita nelle sue forme dagli architetti, ma dalle forze del mercato”.
Un esempio attuale e più vicino a noi, è il progetto del mega-grattacielo di Banca Intesa-San Paolo a Torino, affidato a Renzo Piano. Non è stato Piano a stabilire che una grande banca dovesse avere nella metropoli piemontese, città storicamente piatta, un simbolo gigantesco del proprio potere, oggi più forte di quello della Fiat, tale da poter competere con la Mole Antonelliana. Piano si è messo al servizio di ciò che gli veniva richiesto. Se si chiedesse a Piano o a Massimiliano Fuksas cosa intendono per città italiana moderna e quale debba essere il rapporto del «nuovo» con gli equilibri ambientali e urbanistici esistenti, avremmo risposte assolutamente condivisibili, fuori dalla logica del fanatismo dell’architettura. Poi, quando operano, Fuksas per la torre luminosa alta 120 metri con residenze, box e posti auto al centro del futuro porticciolo turistico della Margonara a Savona o Piano a Torino, entrano in contraddizione palese con ciò che sostengono teoricamente. Pensano bene e razzolano male. È morale che l’abbiano fatto? Anche Leonardo o Palladio erano architetti che mettevano le loro capacità a disposizione di quelli che le richiedevano, ma le nuove leggi dell’economia del consumo e della crescita infinita – introdotte dalla Rivoluzione Industriale – non avevano ancora rotto l’equilibrio tra uomo e natura.
Sarebbe ingeneroso giudicare gli architetti come coloro che, legati a idee ottocentesche di progresso, ritengono che conservare le testimonianze materiali della storia non serva all’uomo contemporaneo. L’aspetto delle nostre città storiche non dovrebbe essere mai considerato come una carta bianca a disposizione dei potenti e dei loro cortigiani. I delegati istituzionali dovrebbero avere la responsabilità di tutelare il patrimonio storico-ambientale e dare un limite alla spregiudicata autocelebrazione del potere economico.
Penso che questi esempi confermino la preponderanza del potere della committenza rispetto alla fama del progettista. Una cosa è ciò che l’architetto pensa, un’altra è ciò che gli fanno fare, come un avvocato pacifista che difende un criminale di guerra: ineccepibile dal punto di vista del diritto pubblico, meno per ciò che riguarda la coscienza.

Il dissolvimento del limite.

Insomma, credo sia difficile parlare di una responsabilità dell’architetto a meno che egli non riesca ad innalzarsi al di sopra delle leggi che regolano la nostra era, preoccupantemente definita da Paul Crutzen15 in Antropocene.
La natura è sopraffatta: l’uomo ne sta modificando profondamente gli equilibri e l’aspetto. Le nuove generazioni iniziano a non riconoscere più la natura come altro da sé. Sembra così lontano il tempo in cui (1776) l’artista svizzero Caspar Wolf dipinse “Il ghiacciaio di Lauteraar” in cui la natura era ancora temuta come una forza divina. Ma oggi tutto è Sé. Sono spariti i limiti, le antiche mura delle città non hanno più alcun significato: il terreo non è più là fuori, ma nelle nostre città e nelle periferie “disegnate” e “create” da noi. Non ci è più permesso delirare, per mancanza di un limite! L’hybris, la dismisura dell’uomo padrone e dominatore della natura, ha preso il posto dell’antica saggezza che consigliava all’uomo di inserirsi armoniosamente nel sistema naturale e sfruttarne le risorse in modo ragionevole.

«Il carattere fondamentale, programmatico della civitas è quello di crescere; non c’è civitas che non sia augescens, che non si dilati, che non deliri (la lira è il solco, segno che delimitava la città, delirio vuoi dire uscire dalla lira, andare oltre i confini della città). La civitas, quindi, per sua natura è augescens, non è concepibile per un romano una civitas che non delirasse.» (Cacciari16)

Simmel parla del valore estetico del ponte che unisce il separato, ma oggi è rimasto ben poco da unire. Ormai bisogna andare in Antartide a naufragare, come è successo recentemente a un gruppo di turisti annoiati, per avere qualcosa di diverso da raccontare agli amici. Certo è che la tensione verso ciò che ci manca, l’altro da sé, quella che ha fatto muovere il mondo per milioni di anni, si sta affievolendo, stiamo diventando sterili nel vero senso della parola.
Jean-Baptiste Say ha codificato la legge secondo cui la felicità è proporzionale alla quantità di consumo. Questa mistificazione economicista è un aspetto centrale della modernità e trova già fondamento nel Leviatano di Thomas Hobbes17 quando annuncia compiacente l’hybris, la dismisura tipica dell’uomo occidentale:

«La felicità di questa vita non consiste nel riposo di una mente soddisfatta. Non è lì infatti quel finis ultimus né quel summum bonum di cui si parla nei libri degli antichi filosofi morali. […] La felicità è un continuo progredire del desiderio da un oggetto a un altro, non essendo il conseguimento del primo che la via verso il seguente. […] Cosicché pongo in primo luogo, come una inclinazione generale di tutta l’umanità, un desiderio perpetuo e senza tregua di un potere dopo l’altro che cessa solo nella morte.» (T. Hobbes)

Il sociologo Émile Durkheim sostiene che questo presupposto utilitarista della felicità è costituito da un insieme di piaceri legati al consumo egoista. A suo avviso, questa felicità può portare all’anomia, ovvero a quella mancanza di norme sociali entro cui si mantengono i comportamenti individuali, ed al suicidio.
A differenza delle ere precedenti – quinta estinzione del cretaceo, quella dei dinosauri, avvenuta 65 milioni di anni fa – l’uomo oggi è direttamente responsabile della “deplezione” in corso della materia vivente e potrebbe addirittura esserne vittima18.

La smaterializzazione dell’architettura: il difficile equilibrio fra Téchne (τέχνη) ed Epistème (ἐπιστήμη)

«L’unico comandamento cui erano sottoposti era il rispetto dei limiti: «Nulla di troppo» diceva un’iscrizione presso l’oracolo di Delfi. Bisognava rifuggire dall’arroganza, rispettare i limiti naturali, non imitare gli dei. Così essenzializzata, l’etica imponeva anche all’estetica il suo canone centrale: la sobrietà. Oggetti molto decorati, vestiti drappeggiati, colori sgargianti, discorsi esagerati o urlati provocavano un rigetto che, proprio per sobrietà, non veniva neppure espresso. Si sottintendeva che erano cose da barbari.» (L. Zoja19)

Cosa succederà quando la gadameriana nobilissima arte non troverà più un paesaggio in cui inserirsi e portare qualcosa di nuovo? Cosa succederà quando sarà del tutto svanita e non ci sarà più alcuna heideggeriana “novità” a irrompere nel mondo delle cose?
Il raggiungimento, negli anni settanta, delle soglie di utilizzo delle materie prime naturali ha portato alla necessità di trovare nuovi motori all’ormai inarrestabile processo di “sviluppo”. Si è passati allora da tecnologie meccaniche finalizzate alla produzione di beni materiali, all’utilizzo di tecnologie tendenzialmente immateriali, portando all’evoluzione postmoderna del capitalismo industriale verso quello che Castells20 ha chiamato capitalismo informazionale (immateriale o cognitivo).
Il valore sembra essere passato dal bene prodotto al valore della tecnologia immateriale che è contenuto nel bene venduto. A questo si associa una creazione di valore che tende a slegarsi sempre più dalla materialità fisica del bene, per divenire una produzione di valore semiotica, simbolica, che va a modificare la struttura delle preferenze e del consumo.
È il risultato dell’evoluzione dei processi di consumo e di produzione impliciti nel passaggio da un capitalismo mercantile materiale ad un capitalismo che tende a valorizzare la sua produzione ed ottenere profitti tramite la vendita di simboli e quindi di elementi di immaterialità21.
La società dei consumi della modernità liquida vuole che produzione e consumo siano due aspetti di un unico processo circolare: non solo si producono merci per soddisfare bisogni, ma anche bisogni per garantire la continuità della produzione di merci. La vita liquida si alimenta dell’insoddisfazione dell’Io rispetto a se stesso. (Bauman22)
Cacciari23. esprime bene il concetto di smaterializzazione del corpo e la scomparsa del limite nella città contemporanea.
L’architettura si trova quindi ad operare in un mondo in cui i limiti sono stati cancellati dal virtuale e dalla sopraffazione e dal consumo pressoché totale della natura.
Anche il valore estetico dell’architettura diventa incerto, nonostante Ingarden descriva l’architettura come l’arte più creativamente costruttiva e Van Hartman individui la casa – prodotto architettonico più diffuso – come l’immagine espressiva che l’uomo ha di sé stesso che la abita.
Insomma, la strategia del capitalismo cognitivo non ha funzionato e stiamo superando la soglia della fine delle risorse energetiche (sic).

«Con il diciottesimo secolo anche l’architettura muore […] “Queste abbazie, questi castelli, queste chiese con le loro facciate a linee curve, con i loro portali e i loro cortili a motivi di conchiglia, queste fughe di scale, le gallerie, i saloni, i gabinetti d’ogni specie, tutto questo non è più un mondo di corpi architettonici, ma sono sonate, minuetti, madrigali, preludi divenuti pietra; musica da camera in stucchi, marmo avorio e legni preziosi; cantilene di volute e cartocci, cadenze di scalee e di comignoli”.» (Spengler24)

Le Corbusier affermava che i mutamenti economici e tecnici non possono che portare a una rivoluzione della stessa architettura. L’Estetica esprime questa rivoluzione, il fagocitamento dell’arte da parte della tecnica; in architettura la tecnica si è fatta Totem. Il bello e la funzione si separano (Scruton25).

«Estetica dell’ingegnere, architettura, due cose solidali, conseguenti, l’una in piena fioritura, l’altra in penoso regresso. L’ingegnere, ispirato dalla legge dell’Economia e guidato dal calcolo, ci mette in comunicazione con le leggi dell’universo. Raggiunge l’armonia. L’architetto, organizzando le forme, realizza un ordine che è pura creazione della sua mente, attraverso le forme, colpisce con intensità i sensi, e, provocando emozioni plastiche attraverso i rapporti che egli crea, risveglia in noi risonanze profonde, ci da la misura di un ordine partecipe dell’ordinamento universale, determina movimenti diversi del nostro spirito e del nostro cuore ; è qui che avvertiamo la bellezza.» (Le Corbusier26)

E persino le chiese sembrano aeroporti: per la costruzione della chiesa Dives in Misericordia (quartiere Tor Tre Teste a Roma, 2003) Richard Meier ha richiesto la creazione di un nuovo cemento, il Tx Millenium27.
Tornare indietro non è certo facile. Ugo Spirito28. deduce che l’architettura «sfugge a ogni possibilità di essere ricondotta alle concezioni e alle definizioni tradizionali del mondo dell’arte. Con il discorso agli architetti il filosofo può trovare la via relativamente più aperta per raggiungere lo scopo che oramai deve prefiggersi. A loro egli può più agevolmente mostrare l’equivocità della via finora percorsa e volgere l’invito a liberarsi da dogmi inconsistenti e a contare esclusivamente sulle loro forze, così sul piano teoretico come su quello inventivo e costruttivo».
Loos ci ha aperto gli occhi sulla superfluità dell’arte e Mies van der Rohe ci indica una strada: «Se a ciascuna cosa venisse disposto ciò che le appartiene intrinsecamente, tutte le cose tornerebbero ad assestarsi nel loro luogo proprio … Il caos in cui viviamo lascerebbe posto all’ordine, e il mondo riavrebbe significato e bellezza»29. Mies afferma polemicamente: «II nostro compito è essenzialmente quello di liberare la pratica costruttiva dal controllo degli speculatori estetici e restituirle quel che dovrebbe essere in via esclusiva: costruzione30». Per aggiungere subito dopo: «Edificazione è uguale a costruzione, e arte al raffinarsi di quest’ultima; non c’è altro»31.
La forma è il risultato del progetto di architettura ottenuta mediante una regola, un ordine, una disposizione appropriata delle cose e nella forma si cerca la sua l’essenza e cioè la risposta alle esigenze dell’uomo di contenere le sue attività. L’opera architettonica non ha senso se non come essenza aristotelica. Louis Kahn diceva: “Non conosco servizio migliore che un architetto possa offrire come professionista di quello di rendere evidente che ogni edificio deve servire un’istituzione degli uomini, vuoi che si tratti del governare, dell’abitare, dell’apprendere, oppure della salute o del tempo libero32.” Sempre Louis Kahn33 ci dà un bellissimo insegnamento scrivendo:

«Le scuole sono cominciate con un uomo sotto a un albero, che non sapeva di essere un maestro, e che esponeva ciò che aveva compreso ad alcuni altri, che non sapevano di essere degli studenti. Gli studenti riflettevano sugli scambi di idee che avvenivano tra loro e pensavano che era bello trovarsi alla presenza di quell’uomo. Si auguravano che anche i loro figli ascoltassero un uomo simile. Presto si eressero gli spazi necessari e apparvero le prime scuole. La fondazione delle scuole era inevitabile, perché esse fanno parte dei desideri dell’uomo.
Riflettiamo, dunque, sul significato di «la scuola», «una scuola», l’istituzione. L’istituzione è l’autorità da cui riceviamo le richieste di superfici. «Una scuola», o un particolare progetto, è quanto l’istituzione si aspetta da noi. Ma «la scuola», la scuola dello spirito, l’essenza della volontà di essere, è ciò che l’architetto dovrebbe esprimere nel suo progetto.
» (L. Kahn)

Kahn non avrebbe però mai immaginato un’architettura come quella contemporanea al servizio di un’istituzione privata o pubblica in profonda crisi, tesa all’autocelebrazione del potere economico con la conseguente produzione di architetture assimilabili sempre più a orrende e obese protesi del nostro debole essere narciso “risucchiato da poteri soft, (politico, massmediale, informatico, biotecnologico, etc.) che orientano i nostri desideri, spossessandoci della nostra emotività più profonda e conducendoci verso atteggiamenti essenzialmente omologati e conformistici assoggettandoci alla tecnica della quale siamo sempre più succubi e passivi oggetti più che soggetti34. Insomma, possiamo riflettere e pensare a lungo sull’estetica contemporanea, sui codici puntuali elencati da Eco35 (1965), ma l’uomo costruisce secondo necessità, occasioni, possibilità, risorse disponibili e condizionamenti “soft”. Asseconda pulsioni che hanno radici nella perfezione greca del kalón (sic). Purtroppo, siamo diventati vittime del vuoto desiderio destinato a non trovare mai il proprio compimento, a non trovare mai la propria soddisfazione.
Non c’è speranza. Torneremo al bello (kalón) quando saremo arrivati in fondo alla curva di Olduvai, prevista attorno al 206036 e saremo costretti a ottimizzare le nostre risorse. Dovremmo tornare all’utile, all’essenziale, alla misura e alla giusta proporzione. Nulla più sarà concesso all’effimero e allo spreco. I nostri avi lo sapevano, conoscevano l’importanza della tradizione, dell’innovazione utile e ben riuscita.
La lotta incessante contro la natura, innescata dal fatale errore di aver affidato ad Epimeteo la distribuzione delle qualità agli esseri viventi, sfocia nella ricerca della vita eterna. L’eccesso energetico che ci ubriaca dai tempi della Rivoluzione Industriale ci ha dato questa illusione e ci fa dimenticare le regole e le conoscenze della tradizione. L’architettura (e non solo) si è alimentata di tecnica e abbondanza, è diventata quantità, bigness, un’escrescenza organica che cresce senza controllo (in base all’energia disponibile) e incomincia ad essere soffocante e fastidiosa.
Il pensiero filosofico resta circoscritto e non produce alcun effetto sulla società contemporanea. Alla massa non interessa il senso estetico, ne ha semplicemente un bisogno istintivo per sopravvivere. Lo manifesta fruendo con avida gioia dei non luoghi di ogni genere: villettopoli, centri commerciali, autogrill, aeroporti, finte città ricostruite, SUV, città da crociera etc.
L’architettura è sempre stata una naturale estensione del sé, ed è sempre stata caratterizza da un lato dalla funzione assolta con spazi tridimensionali racchiusi e messi in relazione tra di loro e dall’altro da una funzione rappresentativa e simbolica. Ciò che è cambiato in questi ultimi secoli sono soltanto i materiali e le tecnologie per creare gli spazi tridimensionali e i simboli che si intendono rappresentare. Così, ad esempio, non sappiamo più costruire i Templi, le chiese che avevano lo scopo di metterci in relazione con il divino, perché ci sentiamo noi stessi divini. È il risultato dell’evoluzione dei processi di consumo e di produzione impliciti nel passaggio da un capitalismo mercantile materiale ad un capitalismo che tende a valorizzare la sua produzione ed ottenere profitti tramite la vendita di simboli e quindi di elementi di immaterialità.

«Il ruolo d’architetto sembrava essersi ridotto a quello di disegnatore di pacchi». (V. Scully37)

Il mondo è sempre più immateriale, gli edifici devono apparire leggeri o diventare talmente grandi che l’esterno perde la sua importanza e tutto si svolge all’interno (non c’è più il confronto con la natura, i limite è perso)

«La tecnica è anzitutto il complesso delle invenzioni schiette, spontanee, libere e disinteressate, nate dal caso o dai laboratori; è poi l’avanzata senza fine verso uno scopo anch’esso illimitato, che trascina le cose verso mete inattese e a, volte sconvolgenti» (Le Corbusier38)

La velocità.

Il processo iniziato con la casa per metà Neogotica e per metà Neoclassica, costruita nella metà del settecento in Irlanda per le differenti esigenze estetiche di Lady Ann Bligh e di suo marito visconte Bangor, ha bruciato tutte le tappe in pochi anni; abbiamo fatto tutto quello che non è mai stato fatto in millenni.
Abbiamo applicato a pesanti edifici maschere di leggerezza e di trasparenza immateriale (materiali lontani dai luoghi e dalla tradizione come calcestruzzo, acciaio e vetro si uniscono a metafora della democrazia), abbiamo illuminato l’oscurità della notte, abbiamo costruito isole artificiali, città naviganti (le mega-navi da crociera), ricostruito villaggi a tema meglio di quelli originali (Celebration della Disney Corporation in Florida), abbiamo costruito aeroporti sul mare (Tokio), spiagge tropicali sulla terra ferma in zone dal clima continentale (il Center Parcs descritto da Augé39), fabbriche con la stessa valenza simbolica del contenitore del loro profumato prodotto (L’Oréal di Aulnay-sous-Bois degli architetti Pistre e Valode, anch’essa descritta da Augé40), musei–scultura a forma di foglio accartocciato (Gugghenheim di Frank Gery a Bilbao), abbiamo trasportato il meglio della città del consumo all’interno di centri commerciali, costruiamo stazioni orbitanti, piste da sci nei deserti torridi, grattaceli girevoli … Cosa ci manca? L’immortalità?41
L’evoluzione della medicina, il ringiovanimento chirurgico del corpo, la falsa credenza del controllo assoluto della natura, la sostituzione dell’Io a Dio e la velocità del fluire del mondo esterno ci fanno sentire egoisticamente vicini a questo obiettivo.
Con il superamento del limite (la morte di Dio e la crescita smisurata della nostra protesi esterna che ha occupato quasi tutto l’altro da noi), siamo passati dall’etica universale all’estetica individuale oggi espressione egoistica di un numero crescente di soggetti innescando una corsa senza fine (hibrys) che sta sconvolgendo, come dice Le Corbusier, il mondo. La responsabilità estetica, dunque, diventa una questione ridondante il cui fattore determinante diventa la velocità tanto acclamata dai nostri futuristi che forse, vedendone gli effetti, non condividerebbero più. La forma diventa paradossalmente immateriale e, ad esempio, le piazze (luogo in cui tendevano a esser promosse ed elaborate in contatti quotidiani le attività commerciali, culturali e politiche) vengono sostituite dalle strade più “utili” (secondo le logiche correnti) per velocizzare il fluire del traffico. La tecnica (techne) è diventata sterile e incapace di sviluppare dei significati, ha sopraffatto la sapienza (episteme) con cui aveva un nesso inscindibile nel mondo classico. Con la supremazia della tecnica l’estetica perde ogni significato

«Proprio questa crescente complessità ha invece eliminato la bellezza come equivalente valore supremo: essa, infatti, è di ostacolo all’efficienza, alla velocità e alla misurabilità economica che orientano la società in modo sempre più esclusivo. Bisogna ammetterlo: i valori estetici tendono proprio a essere antifunzionali e antieconomici.» (L. Zoja42)

La «modernità liquida» (Zygmunt Bauman), perde la solidità proprio a causa della caduta di fisicità del mondo, dell’abbattimento di barriere, del superamento o della porosità dei confini e della liberazione della rigidità del tempo. La velocità dell’attuale capitalismo cognitivo porta i giovani architetti (e non solo) a frapporre strumenti (software) che li allontanano dalle caratteristiche morfologiche reali e dal contesto storico in cui il progetto si inserisce. La “tabula rasa” perde il sentimento e predominano blocchi parametrizzati che ruotano e si deformano come in un videogame. La progettazione diventa un video game che asseconda i ritmi veloci del gioco in cui il presente è futuro in divenire frenetico ed in cui natura e artefatti esterni vengono considerati solo dopo essere stati inseriti all’interno, annullando ogni limite. Ma la cosa peggiore è che non c’è un controllo colto, attento e disinteressato delle competenze cosicché chiunque può giocare a questo videogame senza per nulla rendersi conto delle conseguenze reali prodotte dai facili movimenti del proprio mouse, nel momento in cui l’oggetto – assecondate le varie regole e velleità del committente – irromperà nel mondo reale. Purtroppo gli strumenti di progettazione contemporanei si rivelano un arma pericolosa se non in mano a quel genio artista che deve progettare la sua scultura gigantesca “bigness” e non aiutano a perseguire i buoni consigli dei maestri del passato, anche recente.

La zona grigia

L’architetto dovrebbe ribellarsi a quanto sta accadendo. L’opera, come dice Adorno non può avere alcuna positività, nasce per dire NO. “Egli riconosce anzi che l’estetica moderna nasce nel momento in cui l’uomo passa da una condizione autodiretta a una eterodiretta; ciò in termini storico-sociologici significa il passaggio dall’organizzazione contadino-patriarcale a quella industriale-manageriale. A fronte di tutto questo l’opera nasce proprio per dire no, là dove l’alienazione è diventata struttura sociale, con l’Illuminismo.” (Masiero43)
Come fare per ritrovare l’etica, il tempo e la misura del limite nel nostro lavoro? A quali canoni ci dobbiamo ispirare?

«…Si facciano altresì dei modelli in scala dell’opera, sulla base dei quali è consigliabile riesaminare ogni parte dell’edificio da costruirsi, due, tre, quattro, sette, dieci volte, riprendendo l’esame a volta a volta dopo intervalli di tempo, finché nell’intera opera, dalla zona più bassa alla più alta regola non rimanga particolare riposto o scoperto, grande o piccolo, che non sia stato da noi lungamente e intensamente soppesato e stabilito, e non sia deciso con quali caratteristiche, in quale posizione e in che ordine sia decoroso o utile disporlo
(L. B. Alberti44)

Insomma dobbiamo tornare all’ordine delle cose – come ci ha suggerito Mies van der Rohe.

«Occorre reimparare l’arte di costruire, per inventare i miti freschi onde possa scaturire la nuova atmosfera di cui abbiamo bisogno per respirare»; occorre «tagliare blocchi di pietra e porli uno sopra l’altro per metter su fabbricati pesanti, e modificare senza tregua la crosta della terra riconquistata. La aspirazione femminile alla musica, farà luogo alle leggi virili dell’architettura»
(M. Bontempelli45)

Secondo Loos46 si dovrebbe ricercare “uno stile architettonico che possiamo trasmettere ai posteri con la coscienza tranquilla, a cui anche in futuro ci si possa riferire con orgoglio. A Vienna nel nostro secolo questo stile architettonico non è ancora stato trovato.” Bisogna “penetrare nello spirito greco” in cui “le modifiche nelle forme non sono dovute alla smania di novità, ma al desiderio di perfezionare quelle cose che già vanno bene”. Parafrasando Loos: non si tratta di dare alla nostra epoca una nuova architettura, ma l’architettura migliore. Ma, come è difficile trovare una buona architettura e come è facile, invece, trovarne una nuova!
Tutti i tratti caratteristici di un volto umano hanno delle funzioni precise affinate nei tempi, nella memoria dell’evoluzione con piccole variabili. Ebbene, Eibel-Eibesfeldt47 fa notare in modo empirico che la media di questi tratti – femminili o maschili – dà come risultato un bel volto. Eibel-Eibensfeld parla di «apprendimento statistico» e riporta l’esperimento di H. Daucher: «prendendo come punto di riferimento gli occhi, sono state sovraimpresse 20 fotografie di giovani donne. Poiché le zone maggiormente ripetute diventavano poi quelle più scure, l’immagine risultante costituiva una sorta di riassunto delle caratteristiche comuni, e di conseguenza «tipiche» o «specifiche». È interessante notare che il «tipo ideale» risulta piuttosto attraente, ma il problema del perché ci appaia tale è ancora aperto. E molto probabile che si siano evoluti schemi di riferimento (templates) rispetto ai quali confrontiamo le nostre percezioni e le valutiamo secondo la «norma» che ci è innata.»
Il bello dunque sta nella media dell’utile e lo stesso vale anche per l’architettura e quando l’architettura non rispetta questo principio allontana la pace, la quiete e la bellezza:

«Posso condurvi sulle sponde di un lago montano? Il cielo è azzurro, l’acqua verde e tutto è pace profonda. I monti e le nuvole si specchiano nel lago, e così anche le case, le corti e le cappelle. Sembra che stiano lì come se non fossero state create dalla mano dell’uomo. Come fossero uscite dall’officina di Dio, come i monti e gli alberi, le nuvole e il cielo azzurro. E tutto respira bellezza e pace… Ma che cosa c’è là? Una stonatura s’insinua in questa pace. Come uno stridore inutile. Fra le case dei contadini, che non da essi furono fatte, ma da Dio, c’è una villa. L’opera di un buono o di un cattivo architetto? Non lo so. So soltanto che la pace, la quiete e la bellezza se ne sono già andate.» (A. Loos48).

«Nessun tempio greco ha mai ferito un paesaggio, benché tutti venissero costruiti dove oggi mai si concederebbe una licenza edilizia; e lo stesso vale per i teatri, che in buona parte si adagiavano su pendenze già esistenti. D’altra parte, oggi le licenze per l’edilizia collettiva riguardano ancora riti collettivi, ma di tipo molto diverso: non riguardano più edifici religiosi, bensì centri commerciali. Il teatro greco collabora con il paesaggio: si adatta a esso nel momento in cui lo usa. Si adatta alla totalità perché appartiene alla totalità. Il centro commerciale, invece, è creato da un ordine mentale troppo diverso rispetto alla natura in cui si inserisce, cioè da un pensiero inevitabilmente funzionale ed estraneo all’estetica. Nasce dalla mente economica: una piccola parte soltanto della mente umana. Per quanto la sua realizzazione sia affidata a insigni architetti, non usa, bensì abusa la natura circostante.» (L. Zoja49)

La pace, la quiete e la bellezza se ne sono già andate, l’armonia è rotta dal lusso, dalla moda, dalla crescita “infinita” del mercato. L’immortalità ha preso il sopravvento. L’architettura griffata, i signature buildings, la trophy architecture, segnano il capolinea: l’auditorium di Piano, il museo di Botta, le porte della città di Gehry, la piazza di Krier, l’università di Gregotti, il teatro di Rossi. Gli stilisti dell’architettura diventano i segni distintivi e immediatamente percepibili dei nuovi interventi che intendono piacere tanto localmente che al mondo.

«E’ come se l’architettura di punta odierna stesse consegnandosi alle arti plastiche, come se gli edifici volessero emulare smisurate sculture vuote inadatte a essere abitate, (…) né fatte per questo fine, bensì per servire da templi del consumo (dell’industria, della banca e dei suoi prodotti, oppure come centri commerciali o musei).» (F. Duque50)

L’architettura oggi si fa complice della distruzione della natura, del consumo del territorio, della vivibilità delle città e delle loro periferie ma viene definita da slogan propagandistici persino ecosostenibile! Solo a Milano cito due esempi: il quartiere “ecologico” per 30.000 persone ubicato nella Ex Area Falk progettato da Renzo Piano con la consulenza di Carlo Rubbia ed Ermanno Olmi e i 340.000 metri quadrati nel centro di Milano (Porta Nuova – Garibaldi) che coinvolge oltre 20 architetti provenienti da 8 Paesi tra cui la star americana Cesar Pelli, quella italiana Stefano Boeri e lo studio americano KPF (Kohn, Pedersen e Fox).
Rybczynski, nel suo libro “Last Harvest”, il cui titolo si riferisce all’ultimo raccolto di un coltivatore e cioè il frutto della vendita del suo terreno, descrive le logiche che hanno guidato la realizzazione di una lottizzazione, le stesse logiche nelle quali gli architetti si trovano immersi nella loro quotidianità. Rybczynski descrive tutto l’iter, dalla vendita del terreno alla costruzione degli edifici in cui sono coinvolti molti attori. All’apparenza non ci sono persone cattive, nessun costruttore è rapace e nessun amministratore locale è particolarmente senza scrupoli. Nessuno è predatore o preda. Ci sono molte buone intenzioni ed una serie di eventi casuali a dare forma alla nuova lottizzazione.
Ciò che salta agli occhi è che ogni attore, nel proprio ambito di competenza, è convinto di agire ed operare al meglio. Il problema è che la morale che lo dovrebbe guidare è una morale complessa e nessuno è in grado (o è disposto) ad operare continue valutazioni della stessa. In mancanza di una radicata forza etica si preferisce semplificare la morale, creando ed accettando “zone grigie” sempre più vaste in cui si naviga a vista.
Così si finisce per convincersi che la lottizzazione, decisa per fini speculativi, sia in realtà fatta per dare abitazioni a coloro che non hanno casa; ci si convince che la costruzione dell’ennesimo quartiere ad alta densità abitativa e a scarsa qualità di servizi, sia realizzato per “risanare” un’ex area industriale; si sostiene che la distruzione di terreno agricolo sia per ospitare edifici “ecosostenibili”.
Il problema è che questo processo oggi coinvolge gli interessi di molte persone e ciò, unitamente alla grande disponibilità di energia, e conseguentemente di denaro, ed alla prospettiva di guadagni infiniti rende qualsiasi discorso etico del tutto irrilevante.

«… Girarono a sinistra per la provinciale e uscirono da Sesto, turrita e cementata neppure fosse la Défense di Milano. Con l’allontanarsi dalla città la chioma cementizia si sfoltiva di qualche piano. Mai però prati a vista d’occhio, quello è ricordo di secoli perduti, quando ancora la Brianza iniziava a Precotto ed era luogo ameno dove villeggiare. Si sa, Milano ormai è un’unica città fino a Como e oltre. Ma fra i due poli, tranne alcuni condomini popolari costruiti negli anni sessanta e settanta che ogni tanto sbucano a cadenza infracomunale, il resto è una selva indistinta di villette, villule, villacce, rustici, casette, box, tavernette, mansarde, templi dorici, Bianchenevi, sette nani, leoni rampanti, aquile di cemento, centri commerciali, parcheggi, asfalto, bitume, rovi, cartacce. Il paradiso del geometra, il delirio dell’ingegnere, il trionfo del postmoderno, del premoderno, del post postmoderno, del supermodemo, dell’ipermoderno, del neogotico, del neoromanico, del newromantic, dello pseoudocascinale, dell’uforobot, del, in una parola, Brianza style. Intere generazioni di architetti spinellati si sono fatte le ossa, e i danée, su questa immensa tabula rasa, da tutelare per legge come patrimonio indiscusso dell’umanità, vera e propria opera d’arte a livello territoriale, land art, monumento sublime del kitsch lombardo e produttivo.» (G. Biondillo51)

Cosa può fare, dunque, il “povero” architetto che aspira alla sobrietà nel piccolo spazio di sua competenza, quello ancora non occupato dalle mille specializzazioni, se non essere complice passivo della distruzione del mondo? E’ sempre più difficile avere una gestione globale del progetto architettonico e quindi essere responsabili delle scelte estetiche, a meno di non essere un artista come Frank Gehry.

«… il campo dell’estetica si è gradualmente ridotto al campo dell’arte: è così che gli edifici moderni si sono fatti prevalentemente brutti, e particolarmente costosi anche in rapporto a questa bruttezza. […] È significativo che impegni così colossali diano risultati minuscoli, e che fioriscano quando moda ed edilizia raggiungono un grande fatturato. Non si tratta infatti di attività estetiche – come quella del primitivo che decora la sua capanna o dell’indiana che si drappeggia con il sahri, ma di attività economiche.» (L. Zoja)52

La nostra diseducazione ci porta a trascurare l’estetica ed equivale a una complicità con la bruttezza: e la bruttezza è violenza infinita all’anima.
Se vogliamo cercare di evitare che anche l’architettura segua il declino inesorabile delle altre arti, ormai fagocitate dalla tecnologia, dovremmo cercare di concretizzare, come suggerisce Duque53, l’alleanza tra il filosofo e l’architetto, contrapponendo i principi heideggeriani dell’abitare (salvare la terra, ricevere il cielo come cielo, aspettare gli esseri divini in quanto divini e vivere essendo per la morte) a quelli descritti e attualmente in atto (consumo delle risorse naturali, stabilire le proprie regole, creare idoli per il nostro profitto e a nostra immagine e somiglianza, essere per il consumo alla ricerca dell’immortalità).

Bibliografia

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Note

Nota 1 – T. Wolfe, Maledetti architetti, dal Bauhaus a casa nostra, Bompiani 1994. Tom Wolfe descrive gli edifici tristi e scomodi dell’lnternational Style, che si ispirarono ad alcune decine di palazzi di vetro, cemento e ferro, pressoché identici, privi di colore e linee curve in cui la gente non vuole più abitare ma che sono il frutto di intensi dibattiti culturali a partire dal Bauhaus e che hanno prodotto anche in Italia quartieri come il Gratosoglio (Belgioioso), il Gallaratese (Aldo Rossi), lo Zen (Gregotti), il Corviale etc. progettati dai nostri più noti architetti moderni. torna al testo

Nota 2 – J. Ortega y Gasset, La deshumanización del arte (1925), in La deshumanización del arte y otros ensayos de estètica, Espasa, Madrid 1987 (trad. it. La disumanizzazione dell’arte, Sossella, Roma 2005). torna al testo

Nota 3 – Si veda in proposito S. Givone: Prima lezione di estetica, Laterza, Roma-Bari, 2003. torna al testo

Nota 4 – L. Zoja, Giustizia e bellezza, cit., p.22. torna al testo

Nota 5 – F. Nietzsche, La Gaia Scienza, L. III, a. 125, ed. it. Adelphi, Milano, 1984. torna al testo

Nota 6 – L. Zoja, Giustizia e bellezza, cit., p.8. torna al testo

Nota 7 – J. L. Hammond, B. Hammond, The Rise of Modern Industry, Londra, 1925, p. 136. torna al testo

Nota 8 – A.Loos, Parole nel vuoto, cit., p.104. torna al testo

Nota 9 – La maggior parte della popolazione mondiale oggi vive nelle città, quindi in uno scenario lontano dalla natura con evidenti problemi di adattamento delle capacità umane. torna al testo

Nota 10 – “I miei schizzi sono come gesti: come fare per costruirli? Ci sono riuscito grazie al computer; altrimenti non avrei nemmeno provato.” confessa Frank Gehry nel film-intervista di Sydney Pollack, Frank Gehry – Creatore di sogni, Real Cinema Feltrinelli , 2007. torna al testo

Nota 11 –  R. Koolhaas: Junkspace, Quodlibet, Macerata, 2006. torna al testo

Nota 12 –  M. Gallione: l’Architetto, n.139 del 9/1999. torna al testo

Nota 13 –  L. Cavestri, Il Sole 24ORE, del 30/5/2006. Persino Adriano Celentano in un recente show televisivo canta una canzone il cui testo elenca tutte le cose che non sono buone, infilando una strofa sugli architetti, che definisce “kamikaze”: «la situazione internazionale non è buona la situazione dell’acqua non è buona la situazione quando mi baci non è buona la più grande sciagura sono gli architetti». torna al testo

Nota 14 –  W. Rybczynski, Last Harvest: How a Cornfield Became New Daleville: Real Estate Development in America from George Washington to the Builders, Scribner Book Company, 2007. torna al testo

Nota 15 –  P. J. Crutzen, Benvenuti nell’Antropocene, Mondadori, Milano, 2005. torna al testo

Nota 16 –  M. Cacciari, La Città, Pazzini Editore, Villa Verruchio, (2004). torna al testo

Nota 17 –  T. Hobbes: Leviatano, Nuova Italia, Firenze, 1984, p. 93-94. torna al testo

Nota 18 –  Secondo il rapporto di Belpomme sui tumori e le analisi del rinomato tossicologo Narbonne, la fine dell’umanità dovrebbe avvenire ancor prima del previsto, ovvero verso il 2060, a causa della sterilità diffusa dello sperma maschile prodotta dall’effetto di pesticidi e altri Pop o Cmr (i tossicologi definiscono Pop gli inquinanti organici persistenti di cui i Cmr – cancerogeni, mutageni, reprotossici – rappresentano la specie più “innocua”). F. Belpomme, Ces maladies crées par l’homme, Albin Michel, Paris, 2004, citato in S. Latouche, La scommessa della decrescita, Feltrinelli, Milano, 2007, p. 7. torna al testo

Nota 19 –  L. Zoja, Giustizia e Bellezza, cit., pag. 15-16. torna al testo

Nota 20 –  M. Castells, La nascita della società in rete, Università Bocconi, Milano 2003. torna al testo

Nota 21 –  In realtà questo capitalismo cognitivo è spesso più avido di input materiali, di quanto possa sembrare: «Se il software è una creazione dell’ingegno, la costruzione di un solo computer, per esempio, necessita un consumo di 1,8 tonnellate di materia, di cui 240 chili di energia fossile.» (Rapporto ONU citato da A. Gras, “La Décroisance” n.2 maggio 2004). torna al testo

Nota 22 –  Z. Bauman, Vita liquida, Laterza, Roma-Bari, 2006. torna al testo

Nota 23 –  M. Cacciari, La città, Pazzini Editore, Villa Verucchio, 2004. torna al testo

Nota 24 –  O. Spengler, Il tramonto dell’occidente, Longanesi, Milano 1957, citato in R. Masiero, op. cit., p. 179. torna al testo

Nota 25 –  R. Scruton, The Aesthetics of Architecture, Princeton – London, 1979, citato in R. Masiero, op. cit., p. 210. torna al testo

Nota 26 –  Le Corbusier, Vers une Architecture, 1923, ed. it. Le Corbusier Verso una Architettura, a cura di P. Nicolin e P. Cerri, Longanesi, Milano, 1979, p. 3. torna al testo

Nota 27 –  Sono state necessarie oltre trentamila ore di lavoro in studi e ricerche, di cui più della metà per passare dalla fase progettuale alla fase realizzativa. Il nuovo cemento non ha soltanto un’altissima resistenza e una maggiore lavorabilità ma grazie alla presenza di particelle di fotocatalizzatori, la superficie di cemento sotto l’effetto della luce si autopulisce, eliminando i depositi organici favorendo il mantenimento dell’aspetto estetico originario e aumentando la durata del manufatto. torna al testo

Nota 28 –  U. Spirito, Nuovo umanesimo, Roma, 1964, citato in R. Masiero, op. cit., p.209-210. torna al testo

Nota 29 –  Citato in Ph. Lambert, Mies in America, Harry N. Abrams, New York 2002, p.604. torna al testo

Nota 30 –  M. van der Rohe, Escritos, Diàlogos y Discursos, Consejerìa de Cultura, Murcia 1981, p. 27. torna al testo

Nota 31 –  Cit. in David Spaeth, Mies van der Rohe. Der Architekt der technischen Perfektion, Stuttgart 1986, p. 11. torna al testo

Nota 32 –  Estratto da: Louis I. Kahn: Talks with Students (conferenza tenuta alla Rice University, Houston, 1969), ora in “Architecture at Rice“, 26, 1969, pp. 1-53. torna al testo

Nota 33 –  L. I. Kahn: Forma e Progettazione, da The Voice of America, 1960. torna al testo

Nota 34 – Elena Pulcini, nella lezione tenuta all’Università di Filosofia a Firenze il 30/3/07. torna al testo

Nota 35 – U. Eco, Proposte per una semiologia dell’architettura, Milano, 1965, citato in R. Masiero, op. cit., p. 218. torna al testo

Nota 36World Energy Production, Population, Growth, And The Road to the Olduvai Gorge, teoria elaborata dall’ingegnere petrolifero e direttore dell’Institute on Energy and Man, Richard C. Duncan, che ha portato a termine nel 1989 un’estesa modellizzazione riguardo l’esaurimento delle risorse petrolifere. torna al testo

Nota 37 – V. Scully, Architecture : The Natural and the Manmade, St. Martin Press, Bedford, NY, 1991 cit. in F. Duque, Abitare la terra, Moretti & Vitali, Bergamo, 2007, p. 94. torna al testo

Nota 38 – Le Corbusier, Manière de penser l’ubanisme, Paris 1963 – ed. it. Maniera di pensare l’urbanistica, Laterza, Roma-Bari 1977, p. 13. torna al testo

Nota 39 – M, Augé, Disneyland e altri nonluoghi, Bollati Boringhieri, Torino, 1999. torna al testo

Nota 40 – M, Augé, cit., 1999. torna al testo

Nota 41 – Forse perché non riesco a rispondere a queste domande fare l’architetto non mi interessa più, non voglio essere servo e complice di questo “sviluppo” che mi ricorda una coltivazione di batteri in vitro che, circondata da sostanze nutrienti, mangia avidamente e si moltiplica fino a quando le proprie deiezioni si sostituiscono completamente al cibo, portando l’intera colonia alla morte. torna al testo

Nota 42 – L. Zoja, Giustizia e bellezza, cit., p.22. torna al testo

Nota 43 – R. Masiero, Estetica dell’architettura, Il Mulino, Bologna, 1999, p. 206. torna al testo

Nota 44 – L. B. Alberti: De Re Aedificatoria, Libro IX, Cap. VIII, 1450. torna al testo

Nota 45 – M. Bontempelli, Quattro preamboli, Roma, 1938, citato in R. Masiero, op. cit., p.185. torna al testo

Nota 46 – A. Loos, op. cit., p. 106. torna al testo

Nota 47 – I. Eibl-Eibesfeldt, Die Biologie des menshlichen Verhaltens Grundriss der Humanethologie, 1984, ed. it. Etologia umana, Bollati Boringhieri, Torino, 1993, p.441. torna al testo

Nota 48 –  A. Loos, Parole nel vuoto, cit., p. 241. Etologia umana, Bollati Boringhieri, Torino, 1993, p.441. torna al testo

Nota 49 –  L. Zoja, Giustizia e bellezza, cit., p.24. torna al testo

Nota 50 –  F. Duque, Abitare la terra, cit., p. 90. torna al testo

Nota 51 –  G. Biondillo, Per cosa si uccide, Teadue, 2006, p. 223. torna al testo

Nota 52 –  L. Zoja L., Giustizia e bellezza, Bollati Boringhieri, Torino 2007, p. 57. torna al testo

Nota 53 –  F. Duque, Abitare la terra, cit., cap. III. torna al testo

immagine di copertina: Un architetto di fine ottocento di sconosciuto – tratto da Technical Journal, 1893 ora di pubblico dominio. Scanned in 600 dpi by Lars Aronsson, 2005.

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